Lo stregone dei dati - The data warlock #005
Combinare dati e informazioni mediante tecnologie trasformative, per gestire l'azienda come una "data & technology company".
L’informazione può dirci tutto. Ha tutte le risposte. Ma sono risposte a domande che non abbiamo mai posto, e che certamente non si pongono nemmeno. (Jean Baudrillard)
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Il mondo, in fondo, è un’informazione, e questa è la chiave per viverci e prosperare.
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Intelligenza umana vs. intelligenza artificiale
Tra i tanti disagi che affliggono il genere umano, quelli psichici non sono certo i più lievi da sopportare. Qui non c’è stregone che tenga, con tutti i progressi che abbiamo fatto in tanti campi dello scibile, della mente umana sappiamo ancora molto poco.
Una volta c’era la psicoanalisi, considerata indiscutibile, inoppugnabile e incontestabile, in modo apodittico, evidente di per sé. Anche perché se si osava obiettare che tutto il corredo di analogie prese dai miti greci, tutte le spiegazioni dei sogni altrettanto oniriche quanto il loro oggetto, tutto il complesso dei complessi erano poco convincenti, la risposta era che si negava questo “proprio perché” era vero. Capito? Nego che esistano delle pulsioni “proprio perché” sono loro che mi guidano a negarle. L’obiezione stessa dimostra che l’assunto è corretto, per cui più pongo delle obiezioni a un’affermazione e più la confermo, come un insetto intrappolato nella pianta carnivora, più si agita e più scivola verso la bocca.
Vabbè. Fast forward a oggi, anche le terapie più moderne ( tra cui la celebratissima CBT, Cognitive Behavioral Therapy) raggiungono tassi di successo di poco superiore al 50%, che è più o meno come gioco io a freccette.
Ci soccorre, come è lecito aspettarsi su queste pagine, l’intelligenza artificiale. Evviva. Si prendono i verbali delle sedute di terapia, li si tagga (manualmente) classificando ogni passaggio secondo una serie di variabili descrittive, si da in pasto in tutto al motore statistico che segnala le combinazioni più efficaci tra i vari fattori. Meglio iniziare la seduta parlando del tempo o dell’ultimo sorteggio per gli ottavi di Champions? Meglio che il terapeuta parli più veloce o più lentamente? Meglio dedicare più tempo all’analisi dei disturbi o alla pianificazione delle azioni correttive? Dove “meglio” significa: di qualunque cosa si tratti, determina un acutizzarsi o un rilascio dei sintomi?
Questo approccio ha avuto risultati non clamorosi, ma sicuramente positivi. E’ un approccio faticoso perché richiede la classificazione preventiva dei verbali delle sedute da parte di un umano. Ed è un approccio “ignorante”, in quanto analizza e registra quello che funziona, senza chiedersi il perché. Sarà anche un’ analisi estremamente complessa, ma non aggiunge uno iota alla comprensione di quello che succede nella testa o nel rapporto tra paziente e terapeuta. Come dire: io so che tutte le volte che colpisco una pallina sul tavolo da biliardo, quella si muove; non so se lo fa per reazione a leggi fisiche o perché ha avuto paura 1, e poco mi importa, l’importante è che vada in buca.
Nulla di più distante dalla psicanalisi: dalla verità di una spiegazione fornita da un genio individuale (Freud), considerata “vera” di per sé al di là degli esiti, all’efficacia di una pratica basata sulla registrazione di una serie di avvenimenti, non curandosi del “perché”, ma solo del fatto che funziona.
Questo è l’approccio “black box” che è tipico di molte applicazioni di AI, anche in campi più prosaici: non sappiamo cosa succede dentro la scatola nera, non possiamo saperlo, ci mancano le informazioni necessarie o la comprensione di cosa succede all’interno della scatola; e tutto sommato neanche ci importa. Sappiamo che facendo entrare qualcosa (un input) riceviamo un certo risultato (un output), e tanto basta.
Un po’ come la provetta del professor Balthazar, per chi se la ricorda.
Per approfondire: The therapists using AI to make therapy better
(continua …) Intelligenza artificiale vs. intelligenza umana
Settimana scorsa ho deciso di modificare la mia iscrizione a wordpress.com passando a un piano diverso.
Siccome in questi casi riesco a combinare dei notevoli casini, e siccome non mi era chiara la soluzione in base alle spiegazioni reperite online, ho provato con un certa riluttanza a rivolgermi al bot di wordpress. Dico “riluttanza” perché le mie esperienze con i bot non sono sempre felici, come spiego più avanti.
Qui sotto riporto la trascrizione dei passaggi significativi della conversazione.
Amazing! Fantastico. A domanda viene fornita immediatamente una riposta coerente con la domanda stessa, chiara e risolutiva. L’assistente mi ha suggerito in diretta esattamente quello che dovevo fare; e ha addirittura controllato in diretta che lo avessi eseguito correttamente.
La mia esperienza normale con i bot è molto diversa, come accennavo, e si riassume in due semplici passaggi:
Il bot non capisce di cosa ho bisogno e mi fornisce una spiegazione incoerente e inutile
Nella migliore delle ipotesi, capisce che il problema che gli pongo non è tra quelli che è addestrato risolvere; anche se di solito lo capisco io prima di lui.
A quel punto mi è venuto il dubbio, e ho chiesto. Ma sei un bot o un umano? Un umano, mi ha risposto, chi altri potrebbe applicare quella capacità di giudizio e contestualizzazione che la c.d. “intelligenza artificiale” vanta di poter replicare? Rassicurante, vero? Voglio dire, ha confermato lui stesso, o lei stessa, di essere umano. Ma sì dai, l’ha detto lui, o lei … o esso? Perché dite che in realtà … Nooooo!
Intelligenza umana e artificiale: a ciascuno il suo
Cosa ci portiamo a casa?
Non c’è molto di intelligente nell’intelligenza artificiale; non se insistiamo ad attribuirle molte delle qualità che normalmente attribuiamo all’intelligenza umana. In realtà “intelligenza artificiale” è un marchio sfortunato, un nome mal scelto. L’intelligenza artificiale non capisce molto, ma questo non vuol dire che sia inefficace.
Tra le regole di ingaggio per un corretto uso dell’intelligenza artificiale c’è l’esigenza di addestrare il sistema su un quantum di dati sufficiente. Per sviluppare dei bot efficaci nelle funzioni di assistenza clienti occorre disporre di un numero di episodi tali da superare la variabilità della vicenda individuale per individuare dei casi d’uso. Poche aziende possono contare su un numero sufficiente di evidenze; in questo modo ogni chiamata diventa un caso a sé e il bot tenderà a ricondurla a quei pochissimi standard individuati. Come curare qualunque patologia sempre e solo con l’aspirina.
I dati dunque sono fondamentali. Non tanto se vogliamo capire, quanto se vogliamo governare la realtà. “Parlare con i dati” era uno slogan già della Qualità Totale, addirittura. Eppure nei contesti aziendali si continuano a sentire frasi quali “sono convinto”, “a me pare che”, “l’esperienza mi dice” e così via. Ci sono studi che dimostrerebbero la sostanziale causalità (non causalità, ma casualità, cioè che dipende dal caso, cioè fatta à la cactus) dei processi decisionali basati su convinzione e intuizione. Anche perché ammettiamolo, ognuno di noi è convinto di saperla più lunga degli altri e che lui sì che è capace di leggere la realtà attraverso, sopra e sotto. Ma così diventa un frustrante “pissing contest”. Che poi è perché il mondo va come va, ancora prima di Deming e Ishikawa lo sapevano i greci e la chiamavano ubris.
Non è dunque necessario capire per agire. Anche perché se ci pensiamo l’obiettivo di un manager o di un imprenditore non è capire, ma raggiungere i risultati. Il manager è chi fa succedere le cose, in qualche modo, anche se neppure lei o lui capiscono il perché. E’ questo lo spazio dell’intelligenza artificiale, quella che cambia il mondo. Il resto è roba da filosofi, roba a me molto cara e che dovremmo praticare come parte del nostro essere umani e non artificiali. Quando però si tratta di governare, città, regni o processi aziendali, riecheggiano le parole di Federico II di Prussia:
Se voglio punire una città, mando un filosofo a comandarla.
Brevi in breve
Sloganeggiare
“Tra centinaia di progetti esaminati negli ultimi due anni solo in Gran Bretagna, quasi il 35% dichiaravano di avere l’AI o la data science come capacità chiave della soluzione proposta. In realtà meno del 10% delle aziende avevano un team con una qualunque competenza di data science, e meno del 2% avevano sviluppato un modello di AI in qualche modo significativo”. Ecco appunto, non basta dirlo.
Sorry founders, you AI isn’t actually AI.
Fab Four
Se amate i Beatles come me, il docufilm Get Back attualmente su Disney+ è #IMPERDIBILE. Sono a metà del primo di tre episodi piuttosto lunghi, John è in ritardo e Paul inizia a pasticciare, segue un’idea all’inizio piuttosto vaga, la sbozza e la fa emergere da una confusione di ritmo, melodie e frasi, fino a creare "in diretta" Get Back (il pezzo). #EMOZIONANTE. Senza contare che si vedono “dal vivo” tutte le cose di cui tanto si è parlato, l'atteggiamento di John & Paul verso George (#cringe), il legame profondo che c'era tra i primi due anche se ormai le vie si erano separate, la presenza ingombrante di Yoko Ono, etc. Perché ne parlo qui? La qualità audio e video degli originali era pessima e allora hanno chiesto aiuto nientepopodimeno che a Peter Jackson, che ha usato algoritmi di Machine Learning simili a quelli utilizzati per i deep fake per un restauro di qualità #IMPRESSIONANTE. Il lato luminoso dei deep fake.
'The Beatles: Get Back' shows that deepfake tech isn't always evil
E ora un po’ di musica
Abbiamo parlato di bot di successo, chi meglio di quello che “mangia libri di cibernetica, insalate di matematica, è un miracolo di elettronica”! Anno 1978, testo e musica di Luigi Albertelli, Vince Tempera, Ares Tavolazzi, ma quanto erano avanti questi! Da ascoltare a pieno volume perché è roba forte.
Per questo esempio relativo alla discussione del principio di causalità sono debitore a Don Pierino de Giorgi, mio prof di storia e filosofia al liceo.