Viva l'entropia! - Lo Stregone dei Dati #074
La newsletter dedicata al rapporto tra dati, tecnologia, aziende, persone ... e vita.
“Voi occidentali, avete l'ora ma non avete mai il tempo”.
(Gandhi)
Benvenuto alla newsletter de Lo Stregone dei Dati. Seguimi in questo viaggio alla ricerca del significato della vita digitale. Saranno necessari molti incantesimi per superare le prove disseminate lungo il percorso, ma non temere: quelli che sembrano sortilegi in realtà sono solo l’applicazione delle tecnologie all’universo di dati che ci circonda.
☢️ Questo post contiene materiale ad alto rischio di perdita di efficienza ☢️
“Che differenza c’è tra l’efficacia e l’efficienza?”. Un giovane apprendista Stregone, molto tempo fa, ai suoi primi passi in azienda, pose questa domanda al suo mentore.
“Per farla breve e semplice” rispose il benemerito “l’efficacia è la capacità di un’azienda di raggiungere i risultati, (quasi) a qualunque costo, come la va la va, senza eccessive preoccupazioni sulle spese connessi, whatever it takes, l’importante è arrivare a obiettivo; l’efficienza è invece la capacità di fare le cose (il prodotto, il servizio, il progetto) in modo economico, consumando una quantità ragionevole, e possibilmente decrescente, di tempo, materie prime, risorse umane”.
“Grazie, mio prediletto mentore”.
“Non c’è di che. Tieni a mente però, ed è questa la vera lezione da imparare, che è estremamente difficile, se non impossibile, perseguire entrambe. Chi ti chiede di essere sia efficace sia efficiente è in preda al tipico delirio di onnipotenza manageriale. Esistono aziende votate all’efficacia, altre all’efficienza; ma è impossibile perseguirle contemporaneamente con successo (invece di “con successo” mi veniva da dire: in modo efficace). Analogamente ci sono persone nate per l’efficienza, altre che invece si esaltano solo nell’arrembaggio verso l’efficacia. Qualcosa mi dice, peraltro, che tu appartenga a questa seconda schiera”.
“Se lo dici tu, mio caro mentore”.
Assenze
Ai tempi in cui il beneamato mentore ammaestrava i miei malcerti primi passi nel mondo aziendale, lavorare era una “roba” diversa.
In quei giorni lontani, finiti i miei compiti quotidiani, affrontate sfide e frustrazioni, appreso quel che dovevo apprendere, fatto quel che dovevo fare, impacchettavo le mie vettovaglie nella ventiquattrore e … uscivo dall’ufficio.
Uscivo, fisicamente, mentalmente, psicologicamente. Come all’uscita da una magica caverna, quel semplice atto fisico mi trasferiva in un altro stato, un altro universo.
Il tempo che intercorreva tra l’uscita dall’ufficio la sera e il rientro in ufficio la mattina del giorno dopo era una dimensione differente, autonoma e originale. Tempi diversi, spazi diversi (ufficio→casa), mondi diversi. Durante quelle 12 ore, give or take, l’azienda poteva anche saltare in aria; l’avrei saputo solo il mattino dopo. Neanche gli SMS esistevano e il numero del telefono di casa, quello di bachelite con i numeri sul disco tondo, veniva usato solo per i trop manager, solo per emergenze assolute. Un’altra dimensione di me, senza alcuna possibilità di interferenza.
Poi è iniziato a piovere e di colpo, tra capo e collo, ci è capitato il diluvio. Grazie ai prodigi della tecnologia della comunicazione, spazio e tempo si sono decomposti, assiepati, fusi in un blob indistinto. La mia dimensione personale è diventata un’arca da mantenere a galla tra montagne di acqua crescenti.
Alternative
Non mi interessa lamentarmi del mondo in cui viviamo e invocare una regolazione nell’invio di messaggi fuori dell’orario di lavoro (come se ancora esistesse, un orario di lavoro chiaramente delimitato). Mi interessa piuttosto sottolineare quanta poca consapevolezza ci sia del modo in cui questo cambiamento coinvolge noi stessi, l’immagine che abbiamo di noi stessi, la nostra posizione nei confronti della vita, l’universo e tutto il resto.
Se il lavoro invade la vita a colpi di uotsap e imeil e videocol e slech e tims, non è solo che la riserva naturale della vita personale è sempre più stretta, come i Navajo costretti in lembi di terra sempre più piccoli e inospitali; è che le modalità di vivere il lavoro colorano e gradualmente sostituiscono le modalità di vivere la vita personale.
Taim aut
Ce ne rendiamo maggiormente conto nei momenti di pausa: weekend, ponti, ferie.
Queste pause vengono da molti vissute in quanto tali, pause, appunto. Interruzione di una normalità, come se la vita stesse altrove, ogni tanto ci fosse bisogno di tirare il fiato, ma solo in vista della prossima ripartenza. L’intervallo tra primo e secondo tempo non è partita, è “non-partita”. Serve ad andare in bagno, tirare fuori qualcos’altro dal frigo e sentire come sta il resto della famiglia; in trepida attesa del nuovo fischio di inizio.
La conseguenza è che queste pause vengono affrontate con disagio. Il sabato mattina in molti hanno mal di testa, sono nervosi, litigano con il partner al supermercato, guidano pericolosamente e inscenano mezze risse per strada. Rilassarsi non è difficile, è un paradosso schizofrenico. Come posso rilassarmi se in realtà sono in attesa della ripresa, se la mia mente è già lì?
In alternativa … ci si dedica a un hobby. Dolce illusione. Già, perché anche l’hobby viene affrontato con un atteggiamento aziendalese. Prendiamo il running, giusto per restare su un terreno che conosco. Ai bimbi piace correre, lo fanno con gusto e divertimento, ci si perdono inventando percorsi impossibili e imprese gloriose, fino a quando hanno perso il fiato; poi ricominciano. Noi pianifichiamo, regoliamo, analizziamo, studiamo, programmiamo sessioni e sedute di training, fartlek ripetute lunghi allunghi tempo run, ci facciamo aiutare per modificare l’appoggio del piede e la lunghezza della falcata, ingoiamo integratori e tutorial su youtube, incaselliamo il tutto in obiettivi e processi; manco fosse un lavoro!
E poi …
E poi, e poi … e poi arriva il momento della pensione, e qui i nodi vengono al pettine.
“La lunga marcia” è un romanzo distopico di Richard Bachman (pseudonimo di Stephen King). In uno scenario a metà strada tra Rollerball e gli Hunger Games, cento giovani attraversano gli Stati Uniti a piedi. Chi si ferma viene immediatamente ucciso, uno e solo uno sopravviverà. Attorno a loro si raccoglie il tifo di un paese afflitto da un’oscura dittatura, rito catartico di un popolo asservito che proietta i suoi sogni di libertà in un unico vincitore.
Che cosa arriverà, di noi, all’agognata pensione, se per decenni il modo di vivere il lavoro ha assorbito qualunque altra cosa? Se la tracimazione dei nuovi mezzi di comunicazione indotti dalla tecnologia ha indotto una “lavorificazione” di qualunque ambito vitale?
Ma allora che senso ha andare in pensione? Riposare? Recuperare il fiato? Per che cosa? In attesa di quale terzo o quarto tempo?
Il problema è che la domanda che abbiamo in testa non è “che senso ha” andare in pensione, ma “che obiettivo ha”. Beh, che obiettivo hanno l’amicizia, la famiglia, l’arte, il riposo, la contemplazione? Non ha “senso” (adesso mi ingarbuglio) dare “obiettivi” a queste cose. Ma tant’è, la ricerca spasmodica di efficienza ed efficacia ci inseguono e colorano le nostre giornate. Consegnandoci peraltro al non-senso, perché anche se i sessanta sono i nuovi quaranta e i settanta i nuovi cinquanta etc. io vent’anni non li ho più, ne sono consapevole e non mi va neanche di vivere per provare pateticamente di dimostrare l’indimostrabile.
Per cui?
Per cui? Il bello è proprio questo, che non c’è un per cui. Non c’è una conclusione da trarre in modo da ripartire di lì. Niente morali in bullet point “le cinque cose che faccio per dare valore al tempo libero”. Video tutorial sull’arte di vivere il weekend. Tricks & tips per dare valore alla vita in famiglia. È tutta roba aziendalese, e noi la domanda “per cui” la rigettiamo proprio in quanto ricca di obiettivi ma priva di senso. Sottende un ragionamento di mezzi e fini, efficacie ed efficienze, che qui non devono entrare.
L’universo tende all’entropia, questo poco ho capito della termodinamica. E chi sono io per criticare Chi così ha deciso?
E’ un passaggio difficile, a volte doloroso e persino cruento; come tutti i riti di passaggio praticati da tribù cosiddette primitive. D’altro canto le tribù non le abbiamo più, la famiglia non ne parliamo, il nostro mondo è totalmente aziendalizzato e le aziende hanno poco da dire su tutto quello che non sia rapporto economico; anche se ci provano, oh se ci provano!
Come trovare la strada per dare senso e valore a tutto ciò?
L’arte, quella sì può indicarci la strada, l’arte contempla la dimensione piena dell’umanità. E allora ascoltiamo un poeta, che ci ricorda che “il segreto della vita è godersi il passare del tempo. Qualsiasi sciocco può farlo. Non c'è niente di particolare. Nessuno sa come siamo arrivati in cima alla collina, ma dato che stiamo scendendo, potremmo anche goderci il viaggio”.
Testo e musica qui sotto, grazie James.
E ora … un po’ di musica
“Il segreto della vita è godersi il passare del tempo.
Qualsiasi sciocco può farlo, non c'è niente di particolare
Nessuno sa come siamo arrivati in cima alla collina
Ma dato che stiamo scendendo
Potremmo anche goderci il viaggioDai, tira fuori un sorriso, non è un bel viaggio?
Scivola e mentre scivoli cerca di non sforzarti troppo:
È semplicemente un bel giroOra, il problema del tempo è che il tempo non è davvero reale
E’ solo il tuo punto di vista
Einstein disse che non avrebbe mai potuto capire tutto:
i pianeti che girano nello spazio, il sorriso sul tuo volto …
Benvenuto nella razza umana”.