Lo Stregone dei Dati #047
La newsletter dedicata al rapporto tra dati, tecnologia, aziende, persone ... e vita.
“Non si può mai attraversare l’oceano se non si ha il coraggio di perdere di vista la riva”.
(Cristoforo Colombo)
Benvenuto alla newsletter de Lo Stregone dei Dati. Seguimi in questo viaggio alla ricerca del tesoro nascosto del successo personale e di impresa. Saranno necessari molti incantesimi per superare le prove disseminate lungo il percorso, ma non temere: quelli che sembrano sortilegi in realtà sono il risultato dell’applicazione delle tecnologie digitali all’universo di dati che ci circonda.
Fai il giro della città in un sabato pomeriggio da sogno. Percorri il tratto che va da Corlears Hook a Coenties Slip, e da lì verso nord, passando da Whitehall. Cosa vedi? Schierati come silenziose sentinelle, tutt'intorno, stanno migliaia e migliaia di persone immerse in fantasticherie che riguardano l'oceano. Alcune appoggiate ai barili; alcune sedute sulle teste dei moli; altre osservano le prue delle navi provenienti dalla Cina; altre ancora stanno in alto sul sartiame, come se cercassero di vedere il mare ancora meglio. (…) Cosa fanno qui? Ma guarda! ecco che arrivano altre folle, che camminano dritte verso l'acqua, sembra che ci si vogliano tuffare. Che stranezza! Niente li accontenterà se non il limite estremo della terra.
Così Herman Melville. Non parlava per sentito dire, lui che a vent’anni si imbarcò come mozzo per attraversare l’oceano. L’essere umano è esploratore nel più profondo del suo animo. Ogni volta che il suo sguardo si volge all’orizzonte, indovina terre lontane da esplorare, e il suo cuore freme. E’ questo che ha spinto Lucy & co. a colonizzare la terra intera a partire dagli insediamenti primitivi nel cuore dell’Africa. E’ questo che ha spinto tante generazioni oltre deserti e pianure, montagne e paludi, laghi e oceani. Rischiando la vita senza esitazioni, perché se c’è una cosa che teniamo più cara della vita stessa è il senso che possiamo darle, e che giace giusto al di là dell’orizzonte.
Mai paghi, mai domi, sempre con lo sguardo fisso dove si perde il confine tra cielo e terra, mare e alba.
Nell’era delle grandi esplorazioni gli Europei guardavano le mappe antiche, sospese tra fantasia e racconto, e immaginavano la fine della terra, e immensi tesori. Sono partiti, hanno circumnavigato continenti, scoperto nuovi oceani e nuove nazioni, piante e animali sconosciuti, popoli e genti singolari, meraviglie mai viste e mai udite.
Finché nel 1779 James Cook si spinge nelle profondità dello stretto di Bering. Il buon vecchio Giacomo. Nato in un tranquillo paesino dello Yorkshire, figlio di braccianti agricoli; ma il mare chiamava e lo ricordo chino sui libri, la sera, dopo il tramonto, a studiare algebra e geometria, trigonometria e astronomia, anche lui giovane stregone guidato dal sogno. Poi la marina mercantile, la Royal Navy, il Canada, il Pacifico, l’Australia. A tracciare sulla mappa le rotte percorse da James attraverso gli oceani si disegna sul foglio il geroglifico della fantasia, l’arcano profilo dell’esplorazione.
L’ultima sua tappa è nel paradiso perduto, il primo europeo a visitare le Hawaii. Lì si interrompe la sua storia mortale, e finisce anche l’era delle grandi esplorazioni. Restano scampoli di avventura da svelare, mappature da completare, i grandi ghiacci su cui piantare una bandiera, ma l’avventura è finita: abbiamo scoperto tutto quello che c’era da scoprire.
Scoprire e inventare
C’è una differenza di sostanza tra scoprire e inventare.
Ad esempio, nel mio piccolo, quando scrivo questi post non invento nulla ed è per questo che mi piace scriverli. Parto da un’intuizione, una notizia, un gioco di assonanze con qualcosa che ho letto, poi inizio a scrivere percorrendo sentieri mentali, associazioni casuali, citazioni, cercando riscontri, trovandone o meno. Alla fine arrivo a qualcosa; a volte è quello che mi aspettavo di trovare, a volte no, India o America. Certo sono un esploratore da scrivania, ma nella banalità della tastiera del computer parto anch’io, ispirato da un racconto di un altro viaggiatore, da relitti raccolti da una nave in pieno oceano, da una chiacchiera di ubriachi origliata in una taverna, da calcoli astronomici astrusi che disegnano il possibile. Parto, mi oriento con le stelle, seguo venti e maree, e alla fine arrivo a una destinazione, che sia uno scoglio o un continente.
Qual è la differenza tra scoprire e inventare? Io non invento una cosa nuova, ma voglio “scoprire” qualcosa che già c’è; che però è totalmente, strutturalmente diversa da quelle che già conosco. Sembra una contraddizione, perché se quello che scopro già c’è, già dovrebbe fare parte delle evidenze presenti, variandole magari, ricombinandole ma riprendendone il DNA, la sostanza più vera. Ma quella è appunto un’invenzione. In realtà, quando “scopro”, sollevo il velo su una realtà che sia pure già presente, è in grado di stupirmi, di sorprendermi e riorientarmi.
Prendiamo il caso della prossima grande frontiera dell’esplorazione, lo spazio, che purtroppo resterà solo fantasia fino all’invenzione dell’accelerazione a curvatura. Ecco, da sempre quando ci immaginiamo i cosiddetti extra-terrestri li facciamo antropomorfi, magari un po’ strani, mostruosi forse ma sempre in senso terrestre. Hanno più o meno le nostre stesse pulsioni, tendenzialmente aggressive, vedono la realtà in modo simile a come la vediamo noi, affrontano la vita (che già è un concetto tutto nostro) come facciamo noi. Avranno quattro braccia e dieci occhi, ma sempre braccia e occhi sono. Ebbene, tutte queste sono nostre invenzioni. Se gli alieni esistono, beh in quel caso sono già lì da un pezzo e non li inventeremo, come facciamo adesso, li scopriremo. Una volta scoperti, chissà a cosa mai assomiglieranno? A niente, in realtà - infatti non è per niente detto che richiamino in qualche modo qualunque cosa siamo abituati a chiamare vita.
L’invenzione parte da noi stessi; mentre scoprire significa eterocentrarsi.
Cos’è l’innovazione?
Quando noi si parla di innovazione, e in particolare innovazione tecnologica e digitale, stiamo parlando di inventare o di scoprire?
Non voglio farne una questione di termini, potremmo spendere le ore con il dizionario etimologico in mano.
Una cosa è perfezionare, ricombinare, ottimizzare, trovare cose nuove ma sempre attinenti e per così dire estratte dal nostro contesto di riferimento. Ben altro è cambiare le stelle polari che fanno da guida al mio sestante. Per intenderci: una cosa è inventare un’altra ricetta per la minestra di legumi, ben altro sgranocchiare pop corn. Che già il mais viene dall’altra parte dell’oceano, e poi chi avrebbe mai pensato a fare esplodere qualcosa prima di mangiarlo?!?
Potremmo dire, ma non ne sono certo, che l’invenzione è incrementale e la scoperta è discontinua. Potremmo dire che l’invenzione migliora la posizione competitiva di un’azienda mentre una scoperta la genera e la rende inattaccabile. Che ogni scoperta viene seguita e completata da una lunga serie di innovazioni.
Potremmo dire che di innovazione si parla troppo, e a sproposito, per robette di risulta, utili al più, e magari ci si permette pure di chiamarle scoperte.
Potremmo interrogarci sul modo in cui nella nostra vita, e nella vita delle nostre aziende, facciamo spazio per la scoperta, che è una cosa che in realtà alle aziende piace poco, perché è “disruptive”, così si dice, cioè cambia le carte in tavola, e anche le regole del gioco, che tutti dicono “che noia” e poi alla fine ci si trova sempre e comunque a giocare a burraco.
Ma non è questo quello cui siamo chiamati. Non alla conservazione, a fumare la pipa di fronte al caminetto, al miglioramento incrementale, all’aratura del solito vecchio campo. Le persone, e le aziende, sono chiamate alla scoperta, come ci ricorda Melville; ma anche Conrad, London, Verne, perfino Proust e tutta la vera grande arte. Lo sono in quanto persone, per cui anche nel business, anche nell’IT e nell’AI.
Perché ogni tanto – non importa ogni quanto esattamente – ci ritroviamo con poco o nessun profitto nella bottom line del bilancio, e niente di particolare che ci interessi più. Allora pensiamo di partire, navigare e vedere la parte acquatica del mondo. Se non altro è un modo che abbiamo per scacciare l’ansia e regolare l’ipertensione. Ogni volta che ci ritroviamo alla macchinetta del caffè con la bocca contratta e le labbra storte; ogni volta che nella nostra anima c'è un novembre umido e piovigginoso; ogni volta che ci ritroviamo involontariamente a leggere newsletter insignificanti, o a leggere i commenti di qualche post malaugurante; e soprattutto ogni volta che l’ansia prende il sopravvento su di noi, tanto da richiedere un forte principio morale per impedirci di scagliarci sui social e iniziare a insultare la gente - allora dobbiamo ritenere che sia giunto il momento di prendere il mare al più presto.
(liberamente adattato da Moby Dick)
Fa tanto profugo della rete, migrante digitale, esploratore dei bit, viaggiatore dello spazio cibernetico. Lo so, ho divagato più del solito, ma l’altro giorno ne ho compiuti sessanta, che fa girare la testa e pensare. E dopo sessant’anni su questo pianeta, se penso a me stesso e penso a un modo in cui voglio essere chiamato, dall’umiltà della mia postazione di lavoro, una scrivania schiacciata in un angolo di casa, ripeto ancora e sempre: chiamatemi Ismaele.
E ora … un po’ di musica
Qui ci vuole una canzone speciale, memorabile. Ci siamo andati giù pesanti anche con la letteratura e allora perché non Walt Whitman, che in salsa musicale ci sta benissimo?
Canto il corpo elettrico e celebro il me stesso che verrà
canto il corpo elettrico e mi glorio nel luccichio della rinascita.
Brindo al mio ricongiungimento, quando diventerò tutt'uno con il sole.
Creo il mio domani quando incarnerò la terra.
Guarderò dietro le spalle a Venere e a Marte
e brucerò con il fuoco di dieci milioni di stelle
e nel tempo saremo tutti stelle.