Lo stregone dei dati #027
La newsletter dedicata al rapporto tra dati, tecnologia e gestione aziendale. Per sviluppare l'azienda come una "data & technology company".
Non giudico le persone dai loro errori ma dalla loro voglia di rimediare.
(Bob Marley)
Benvenuto alla newsletter de Lo Stregone dei Dati. Seguimi in questo viaggio alla ricerca del tesoro nascosto della competitività di impresa. Saranno necessari molti incantesimi per superare le prove disseminate lungo il percorso, ma non temere: quelli che sembrano sortilegi in realtà sono il risultato dell’applicazione delle tecnologie digitali all’universo di dati che ci circonda.
Di questi tempi il mercato del lavoro è un gran casino: aziende che cercano personale e non lo trovano, persone che cercano lavoro e non lo trovano. Eccesso di domanda contemporaneamente a eccesso di offerta, un mercato squilibrato, l’incubo degli economisti classici, un Tinder senza speranza, uno swipe infinito da un profilo all’altro, tanta voglia di compagnia, l’anima gemella ci sarebbe, ma non si trova, tutti a casa soli soletti a guardarsi il Festival di Sanremo.
L’argomento è complesso e delicato (quello del mercato del lavoro, ma tutto sommato anche quello del Festival) ed è importante sottolineare che uno dei principali motivi di questa incresciosa situazione è il divario tra le competenze richieste dalle aziende e quelle disponibili sul mercato.
Il gap
Rieccoci con il tormentone: il digitale ha trasformato profondamente e stabilmente il mondo in cui viviamo e lavoriamo. Di conseguenza c’è bisogno di figure che lo conoscano, che abbiano familiarità con esso e che sappiano gestirlo a vario livello; ma queste figure non si trovano, perché le competenze, la cultura e gli atteggiamenti si modificano a un ritmo di gran lunga inferiore a quello della tecnologia.
La legge di Moore si applica ai microprocessori, non alle persone.
Se è vero che questo divario è presente a cavallo di tutte le generazioni, tra tutti i digital immigrants hanno parecchie difficoltà in più.
Prendiamo ad esempio uno a caso, nato per dire nel 1964. Per intenderci a Sanremo quell’anno trionfava Gigliola Cinquetti con “Non ho l’età”. Lui adesso l’età ce l’ha, accidenti se ce l’ha, va per i sessanta, ma se non infila una finestra pensionistica preferenziale rischia di dover restare sul mercato del lavoro fino al lontanissimo 2031. E’ cresciuto in un mondo analogico, ha mosso i primi passi in azienda quando ancora la contabilità si teneva su carta, ha una cultura sostanzialmente impiegatizia, sa scrivere e ricevere messaggi di posta elettronica, utilizza lo smartphone come fosse un telefono, frequenta Facebook, Instagram e ovviamente passa molto tempo a scambiarsi auguri di compleanno sui vari gruppi di Whatsapp. Ma secondo voi può partecipare con qualche prospettiva a un Python bootcamp, o prendere una certificazione AWS?
Solidi e piani
###La risposta è “Certo che ce la può fare”, ma andiamo avanti con il ragionamento###
Flatlandia è un “romanzo multi dimensionale” di Edwin Abbott Abbott, godibile e consigliatissimo, uno dei tanti preziosi regali dell’editrice Adelphi.
E’ la storia di una figura solida che per qualche strano accidente si ritrova in un mondo popolato da figure piane. Una sfera arriva un giorno in un mondo di quadrati, triangoli e parallelepipedi, e cosa succede? Che quella terza dimensione proprio non viene capita, il dialogo non è possibile e si genera incomprensione e ostilità.
Se noi leggiamo la realtà con determinati schemi mentali, e succede qualcosa di nuovo, ma di qualitativamente nuovo, non basta adattare gli schemi mentali. Occorre proprio cambiarli.
Agli over -anta, ai boomer, chiamateli come volete, manca spesso la comprensione di questa terza dimensione, quella digitale, che non è un’estensione delle prime due, è proprio e appunto dimensione diversa, che trasforma il modo di vedere le cose. Un mondo tridimensionale non è un mondo bidimensionale con l’aggiunta di una terza dimensione. Non si può andare per estensione, ma per trasformazione. Oserei dire che non basta evolversi, occorre convertirsi.
Questa è la ragione per cui qualunque processo di apprendimento profondo deve passare da un momento di liberazione. Per imparare, bisogna prima disimparare.
Disapprendere
Quando proviamo a imparare una lingua straniera non lo facciamo come si deve finché non riusciamo a pensare in quella lingua. Se la mia mente pensa in italiano, per poi tradurre ad esempio in inglese, la qualità della mia conversazione sarà sempre scarsa e inefficace. Questo perché la lingua inglese non è una traduzione dell’italiano con altri termini e una diversa sintassi; è proprio cosa a sé, l’inglese è proprio diverso dall’italiano. Questa è la ragione delle espressioni intraducibili, che possono essere tecnicamente tradotte ma non esprimeranno mai il significato originario.
Una lingua è storia, società, tradizione, cultura, è un modo di vedere il mondo e di capirlo.
Di conseguenza quando parlo in inglese devo accendere un’area diversa del cervello, l’italiano lo devo scordare per pensare nativamente in inglese (ed è così, pare, anche in senso fisiologico).
Se voglio imparare qualcosa, la prima cosa è disimparare. Abbandonare gli schemi pregressi, smetterla di guardare alle cose usando modelli mentali inadatti, e formarsene di nuovi.
E’ questo il blocco che impedisce a intere generazioni di acquisire familiarità e fluidità con l’informatica.
Una sfida formidabile
La mancanza di competenze tecniche è un problema grave, non solo di mercato del lavoro.
Se la tecnologia permette di fare molto più di quanto le competenze disponibili siano in grado di sostenere, il rallentamento dello sviluppo economico è l’ultimo dei problemi. Sono già alla porta forme di tecnocrazia, di passività civile di interi strati della popolazione, di marginalizzazione di intere generazioni.
Certo si prova a ammorbidire le interfacce, utilizzare il linguaggio naturale, e promuovere gli approcci low coding/low coding; ma così rischiamo di far la fine dei (cosiddetti) selvaggi all’arrivo degli esploratori occidentali. Guardiamo la realtà e la natura con spirito analogico, animista, sentiamo le sveglie ticchettare e non solo non siamo in grado di comprendere qual è il meccanismo che le fa muovere; non capiamo neanche cos’è un meccanismo. Proviamo a interpretare i nuovi fenomeni sviluppati dagli “happy few” con gli schemi mentali appresi in un mondo diverso, in una lingua differente, e perdiamo la connessione con tutto quello che succede. Usiamo gli artefatti seguendo uno schema input output, sapendo poco o nulla di quello che in realtà succede lì dentro; e quando il giocattolo si rompe possiamo solo arrabbiarci con i numi.
E’ necessario un nuovo sforzo, tanto titanico quanto paradossale: uno sforzo di disimparamento di massa. Dobbiamo costruire delle anti-scuole, delle scuole dove si disapprende, dove gli schemi con cui guardiamo alla realtà vengono estratti come un dentista cava un dente; messi in discussione, disattivati; e sostituiti da quelli nuovi.
E ora un po’ di musica
Lettura, scrittura, aritmetica
Sono i rami dell'albero dell’apprendimento
Ma se non ti aggrappi tutti i giorni alle radici dell'amore, ragazza mia
La tua educazione non è completa
Per tutti quelli che credono che imparare qualcosa sia questione esclusivamente tecnica. L’apprendimento è un viaggio, che affrontiamo come persone; quando arriviamo non sapremo solo cose diverse, saremo persone diverse. Altrimenti dovremo fermarci mestamente a mezza via.