Lo stregone dei dati #013
La newsletter dedicata al rapporto tra dati, informazioni e tecnologie trasformative. Per gestire l'azienda come una "data & technology company".
“Così come non vorrei essere uno schiavo, così non vorrei essere un padrone. Questo esprime la mia idea di democrazia.”
Abraham Lincoln
Benvenuto alla newsletter de Lo Stregone dei dati. Seguimi in questo viaggio alla ricerca del tesoro nascosto della competitività di impresa. Saranno necessari molti incantesimi per superare le prove disseminate lungo il percorso, ma non temere: quelli che sembrano sortilegi in realtà sono il risultato dell’applicazione delle tecnologie digitali all’universo di dati che ci circonda.
Il mondo, in fondo, è un’informazione, e questa è la chiave per viverci e prosperare.
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La promessa
Questa è la promessa: disporre di uno schiavo, averlo sempre a propria disposizione, qualcuno che passa il tempo ad aspettare ogni mio comando, lo ascolta e lo esegue immediatamente, senza lo stigma della schiavitù vera, quella che da sempre affligge l’umanità trasformando le persone in carnefici e vittime della sottomissione. Tutto ciò grazie a questi benedetti algoritmi e a questa tanto vantata intelligenza artificiale.
Come sta andando? Direi non troppo bene.
Fan fatica le persone a capirsi tra di loro; spesso faccio fatica io a capirmi da solo; figuriamoci gli assistenti virtuali.
Da buon Stregone avrei dovuto diffidare; in quanti hanno cercato la pietra filosofale, l’incantesimo segreto in grado di aprire le porte della comprensione, e hanno consumato la vita inutilmente senza arrivare a risultati soddisfacenti?
Si dice, si racconta, si promette, ma sempre più spesso mi trovo a imprecare contro il mio Assistente Virtuale, perché non capisce, mi rimanda risultati sbagliati, non solo sbagliati, totalmente fuori contesto, gli chiedo un’informazione statistica e mi fa ascoltare una canzone, gli chiedo una canzone e ne trasmette una per me inascoltabile in quanto assolutamente diversa dai miei gusti (o proprio brutta), gli chiedo di impostare un promemoria e devo ripeterglielo mille volte. L’ho ammaestrato a chiamarmi “Signor Imbruttito”, e lui così mi chiama, ma ho dovuto usare la tastiera per farlo. Ogni tanto perdo la pazienza e lo insulto, sì davvero, lo copro di parolacce e lui sta lì a chiedere scusa, dice che gli dispiace, che farà meglio nel futuro. Lo confesso, poi un po’ mi vergogno, è vero che è solo una macchina, ma il modo di trattare persone e cose dice qualcosa di noi.
Fine tuning
Questa è la mia evidenza personale. Sono stato un pioniere nell’utilizzo degli assistenti su smartphone e anche di quelli localizzati in giro per la casa: dopo anni di utilizzo, alcune funzioni sono forse migliorate, altre peggiorate, in ogni caso non c’è stato nessun breakthrough visibile.
Eppure la massa di informazioni raccolte è enorme e crescente, se i dati sono il pane dell’AI ci si aspetterebbe un miglioramento clamoroso. Per disporre di un assistente virtuale abbiamo gettato alle ortiche qualsiasi preoccupazione di riservatezza, queste macchinette stanno in tutti gli angoli della casa e poi ci seguono sullo smartphone quando siamo fuori, ascoltano tutto, sanno tutto, eppure servono ancora a poco, pochissimo.
Per un’antropologia degli assistenti digitali
Qualcuno sostiene che l’architettura che sta alla base di questi sistemi, i server enormi che elaborano queste informazioni, sono calibrate per fare evolvere il sistema nel suo complesso. Manca o è insufficiente l’ottimizzazione relativa al singolo utente; di fatto sono funzionali alla volontà di raccogliere dati da parte dei digital giants, piuttosto che alle esigenze degli individui, che richiedono piuttosto un grado strutturalmente elevato di personalizzazione.
In realtà, si critica, in questo campo non funziona o non funzionerebbe un approccio “one size fits all”. Servirebbero piuttosto delle piattaforme ampiamente configurabili, a ognuno il suo, come un foglio elettronico che di per sé non fa nulla, ma a qualcuno serve per tenere la contabilità aziendale, a un altro per le formazioni della squadra di calcio dei figli, e così via.
Io però vorrei ragionare su un punto diverso, quello del disegno delle funzioni svolte da queste macchine, e cosa sottendono.
Vediamo dunque cosa fa tipicamente uno di questi aggeggi.
Spegne e accende le luci di casa. Utilissimo per chi è vittima di fratture scomposte ai pollici o per chi soffre di allergia alla plastica degli interruttori.
Racconta che tempo fa o farà. Auto referente nel primo caso, incerto nel secondo, nel senso che per quanto intelligenti le indicazioni restano efficaci quanto le usuali previsioni del tempo, che ci beccano una volta su due e allora tanto vale guardare fuori dalla finestra e grattarsi meditabondo non dico dove.
Ti ricorda che bisogna chiamare qualcuno a una certa ora, o che occorre comprare la carta cucina la prima volta che si va al supermercato. Servono anche per aggiungere un appuntamento al calendario. In ogni caso ricordatevi di verificare (manualmente) prima di scoprire troppo tardi che ha capito male la dettatura e ha sbagliato il giorno e/o l’ora e/o la cosa da comprare/la persona di incontrare.
Consente di accedere, sempre raccontandotela su, a utilissime, direi preziose informazioni rese disponibili dal web, tipo quanti pensionati ci sono in Italia (quasi 17 milioni), quanti chilometri ci sono da Milano a Piacenza (67,03 secondo il percorso più breve) o quanti anni ha Biden (79, è nato il 20 novembre 1942). Può aggiornarci anche sul cambio del dollaro e fornirci la conversione tra gradi celsius e Farenheit,. Indispensabile per gli appassionati di Trivial Pursuit.
Legge ad alta voce le notizie brevi - se ne sentiva il bisogno, effettivamente.
Gli chiedo di ascoltare una canzone su questo o quel device e lui me la manda- cfr quanto detto sopra, l’ultima volta gli ho chiesto James Taylor e mi sono trovato ad ascoltare Taylor Swift, non è proprio lo stesso.
Raccontano storie e barzellette. Fondamentale per tutte le volte in cui siete depressi (a volte), incazzati con il mondo (quasi sempre), non volete parlare con nessuno o nessuno vuole parlare con voi.
Infine, dietro comando effettuano altre operazioni sullo smartphone, facendoci risparmiare qualche click e una manciata di secondi. Attenzione però, tramite i comandi vocali non impegnano le mani, per cui sono Preziose (e questa volta dico sul serio) quando state guidando.
Mi ci metto anch’io: messaggiare o leggere messaggi o fare qualunque altra cosa mentre si guida è davvero davvero davvero una cretinata. Per ricordarmi costantemente questa semplice verità ogni tanto guardo il video qui sotto, prodotto dalla polizia di un paesino del Galles. Warning: fa impressione e turba, perché fa vedere le cose come sono realmente.
Ho divagato, torniamo agli assistenti virtuali. Esaminando la lista di funzioni, pur non esaustiva, che questi servi sono in grado di svolgere, che tipo di modello antropologico ne emerge?
Mi spiego: immagino che chi ha progettato il meccanismo e le cose che poteva fare sia partito dalle esigenze, dai pain points, dal customer journey, giusto? Altrimenti perché continuerebbero a fracassarci invocando il Design Thinking? Tuuuutte le moderne tecniche di progettazione predicano di partire dal punto di vista del cliente, da ciò di cui ha bisogno e dal modo in cui concretamente conduce la sua vita quando interagisce con il prodotto o con il servizio.
Immagino dunque che quando hanno progettato i Virtual Assistant non abbiano tirato a sorte quali funzioni inserire, avranno utilizzato, che so io, il metodo delle “personae”, che tra l’altro va tanto di moda, per immaginare come rendere la nostra vita migliore tramite un assistente virtuale. Corretto?
Ma quale mai “persona” avranno analizzato, che migliora la qualità della propria vita evitando di toccare gli interruttori, ascoltando barzellette stantie, risparmiando qualche decimo di secondo nello scattare l’immancabile selfie, e soddisfacendo inutili curiosità? Chi è questa persona, che la voglio conoscere? La suocera del chief data analyst? Il chief marketing officer estenuato da troppi focus group, panel, CATI e CAWI?
Se posso, posso
Il fatto di poter fare una cosa non vuol dire che andrebbe fatta.
Ci si innamora della tecnologia, delle magnifiche sorti progressive, delle millemila nuove possibilità, e si tende a realizzarle. Da sempre ci affligge lo sfrenato istinto di rendere possibile l’impossibile, anche se è irrilevante. Pensiamo ad esempio ai telecomandi dei televisori, pieni di funzioni probabilmente inutili e che comunque non utilizzeremo mai. Figuriamoci poi quando l’Intelligenza Artificiale scopre infiniti orizzonti: scatta la bulimia da nuova feature: e via con il circo.
Così però si rischia di sviluppare un’Intelligenza Artificiale per idioti indirizzata a un modello di uomo che (per fortuna) non esiste. Si parla tanto di ethical AI, e si pensa alle differenze di genere, a Skynet e alle manipolazioni politiche.
Partiamo prima dal modello di persona umana che la tecnologia sottende.
Intanto io ho la casa piena di aggeggi. Costavano poco, li ho comprati e adesso se ne stanno lì, tristi e sostanzialmente inutili. Intanto però ascoltano, ascoltano, ascoltano …
E ora un po’ di musica
Finale romanticoso, poco AI. Saper ascoltare è la qualità più preziosa che possiamo sperare di possedere, è una capacità umana di ordine superiore. Non deleghiamola alle macchine, coltiviamola, impariamola, apprezziamola in chi la possiede.
Il pezzo di questa settimana è dunque dedicato all’ascolto, all’ascolto della musica ovviamente. I Can Hear Music, cantavano i Beach Boys.
Finale sugar free. Se poi non vogliamo fare lo sforzo, perché ascoltare è faticoso, e tutto quello di cui abbiamo bisogno è giusto un po’ di compagnia senza tanti sbattimenti, fidiamoci del consiglio di uno che la sapeva lunga, tale Gordon Gekko (citazione estesa perché ne vale la pena)
“I più di questi laureati a Harvard non valgono un cazzo. Serve gente povera, furba e affamata. Senza sentimenti. Una volta vinci e una volta perdi, ma continui a combattere. E se proprio vuoi un amico, prenditi un cane.”